Il chocho (Lupinus mutabilis) è un’erba annua originaria degli altopiani del Perù centrale. Cresce fino a due metri di altezza. Produce baccelli lanuginosi lunghi fino a 10 centimetri che contengono semi dalla forma ovale. Il seme, di colore bianco slavato, è costituito per oltre il 40% da proteine e per il 20% da grassi, oltre ad essere ricco di lisina. Le popolazioni andine lo consumano fin dall’antichità, specialmente in zuppe, stufati, insalate e mescolato a granoturco lessato. Una volta essiccato può venire macinato per ottenere una farina. Si dice che consumare farina di chocho e acqua a digiuno per due mesi può abbassare il tasso di glicemia. La specie è stata addomesticata in epoca preispanica, oltre 1500 anni addietro. La produzione e il consumo del chocho sono legati a pratiche ancestrali della cultura andina. Gli antenati delle odierne popolazioni hanno messo a punto tecniche per rendere il seme meno amaro e si sono accordati per praticarle insieme. Dapprima il seme viene bollito per un’ora circa, poi viene chiuso in sacchi di tessuto permeabile e immerso in acqua corrente (in un fiume) anche per 10 giorni. In epoca coloniale la prima testimonianza scritta sul chocho porta la firma di un religioso, padre Valverde, che nel 1539 scriveva al re di Spagna per proporre che le imposte potessero venire pagate in natura con partite di chocho. È un alimento vegetale molto nutriente, per lungo tempo uno dei cibi di base delle popolazioni indigene, eppure sta scomparendo dall’uso. Al giorno d’oggi si trova soltanto a Cajamarca, Cusco e Puno in piccoli quantitativi destinati al consumo domestico. La buccia sottile rende il seme facile da cuocere, ma non si può escludere che il gusto amaro, dovuto all’alto tenore di alcaloidi, abbia contribuito alla sua perdita di popolarità, anche se gli alcaloidi, essendo idrosolubili, possono venire eliminati tenendo a bagno il seme in acqua per alcuni giorni. La scarsa domanda sul mercato sta portando a una diminuzione della coltivazione.
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