Il diritto di vivere in pace e secondo giustizia: gli orti Slow Food in Burkina Faso come seme per il futuro

La guerra, in qualsiasi forma si presenti, rende sempre più fragile la vita sul nostro pianeta. Lo sa bene anche il continente africano, che solo nel 2021 ha registrato il 41%[1] di tutti gli attacchi terroristici jihadisti del mondo: migliaia le vittime e un impatto devastante sotto ogni aspetto.

Il Burkina Faso non fa eccezione. Da almeno 7 anni, il Paese è attraversato da continua instabilità dovuta allo sconfinamento di terroristi del Jihad dal Mali. A detta di molti studiosi di geopolitica, la nazione è diventata un esempio lampante di come dinamiche globali e specifici conflitti regionali abbiano interagito con problematiche etno-socioeconomiche locali, generando situazioni difficili. Oltre duemila persone hanno già perso la vita e circa 2 milioni sono sfollate[2] a causa di attacchi concentrati soprattutto nella parte settentrionale e orientale della nazione.

Ci deve essere un modo per riportare la pace e per ricostruire comunità: il cibo, gli orti e le comunità Slow Food possono essere seme di speranza.

Jean Marie Koalga, Consigliere Slow Food per l’Africa Occidentale e referente nazionale del movimento in Burkina Faso, ci descrive la situazione e ci racconta come i saperi legati al cibo possano essere ponte di pace e ricostruzione.

orti Slow Food in Burkina Faso

«Al momento la situazione è davvero preoccupante in diverse parti del Burkina Faso, soprattutto in cinque regioni: il Nord, il Centro Nord, l’anello di Mouhoun, l’Est e il Sahel.

Gli attacchi terroristici hanno causato molti danni. Non solo la distruzione di beni, dovuta a incendi e furti, ma anche e soprattutto la perdita di vite umane e la migrazione di interi villaggi nelle grandi città, dove però spesso sono stati chiusi centri sanitari, scuole e altri servizi. Queste migrazioni hanno comportato l’abbandono di terreni, campi, colture, animali e lacerato profondamente il tessuto familiare e comunitario della nostra popolazione.

Migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, sono in grave difficoltà e prive di tutto: cibo, lavoro, alloggio, abbigliamento, assistenza sanitaria e scolastica, oltre che di una comunità che li sostenga.

Di fronte a questa situazione, il governo sta cercando di trovare una soluzione, ma è sopraffatto dall’elevato numero di sfollati interni. Per fare un esempio, nella sola città di Dori, capitale della regione del Sahel con 50.000 abitanti, più di 30.000 sfollati sono giunti dopo un attacco terroristico avvenuto a metà giugno in un comune chiamato Seytenga.[3]

Diversi enti internazionali sostengono gli sforzi del governo, come il sistema delle Nazioni Unite (UNICEF, FAO, UNHCR, UNDP, PAM, ndr) e la Croce Rossa, ma il numero crescente di sfollati fa sì che questi aiuti rimangano insufficienti e difficili da distribuire, con il continuo movimento di persone alla disperata ricerca di migliori condizioni di vita.

La situazione ci costringe ad accettare aiuti provenienti da qualsiasi fonte per sopravvivere. Gli sfollati ricevono alimenti importati (riso, ad esempio) che non fanno parte delle loro abitudini alimentari e che non contribuiscono all’economia locale. La cosa positiva – se di positivo si può parlare – è che quanto sta accadendo ci dà conferma della necessità di restare legati al nostro cibo tradizionale, nonostante la situazione difficile, senza compromettere le nostre scelte alimentari e assecondare così le multinazionali e le industrie alimentari che cercano solo il profitto, anche in situazioni di crisi; e forse stanno addirittura contribuendo a crearlo di proposito.

La massa di persone costretta a concentrarsi nelle città ha bisogno di produrre e consumare i propri prodotti tradizionali, di rimanere attaccata al proprio territorio e alle proprie abitudini alimentari perché permettono di restare legati alle proprie radici, alle proprie origini.

La diffusione di questo messaggio anche tra i bambini e i ragazzi è fondamentale: conoscere la biodiversità locale li renderà da un lato liberi di scegliere, ma anche capaci di mantenere una visione positiva della vita, dove la natura e l’uomo possono convivere e salvarsi a vicenda al di là dei conflitti e delle violenze. Un contributo prezioso in questo senso viene anche dal ricettario Slow Food De la Terre à la Table  per la preservazione della cultura gastronomica tipica.

Slow Food ha un ruolo importante poiché rappresenta un movimento per la giustizia sociale e i diritti delle comunità, primo fra tutti la sicurezza alimentare. Attraverso il nostro lavoro cerchiamo di diffondere e sostenere la capacità di costruire orti comunitari e scolastici che possano rispondere alla necessità di produrre cibo buono, pulito e giusto, che permetta di avere anche qualche introito economico.

orti Slow Food in Burkina Faso
I bambini dell’Orto scolastico di Gorom Nordnei, Burkina Faso

A Gorom-Gorom, nella regione del Sahel, a 45 km dalla città di Dori, sono tre gli orti (due comunitari e uno scolastico) attivi da circa 10 anni che continuano le proprie attività nonostante il contesto rischioso. Amadou C. era il coordinatore di riferimento ma vive ormai in Francia con status di rifugiato dopo che i terroristi avevano incendiato la sua casa e lui è scappato in esilio. Oggi, la responsabile locale è Aminata K. e insieme a lei la rete Slow Food del Burkina Faso ha pianificato nel 2022 di intensificare le iniziative nella zona proprio in risposta alla situazione di crisi. Due nuovi orti comunitari a Gorom-Gorom saranno creati entro fine anno (le visite e le formazioni sono già in corso) consentendo a donne autoctone e donne sfollate di lavorare fianco a fianco, condividendo le pratiche orticole agroecologiche e una quotidianità rigenerata.

Una parte importante del nostro lavoro è infatti anche quella di creare contesti di scambio che permettano a queste persone di continuare a condividere le loro conoscenze, le loro esperienze, di sostenersi a vicenda, di mantenere i loro legami di solidarietà e fraternità e quindi di far vivere (o rivivere) i loro villaggi e le loro comunità.

Il coinvolgimento delle popolazioni ospitanti e degli sfollati in questi orti contribuisce a rafforzare l’accettazione reciproca per la coesione sociale e la convivenza. Stiamo già iniziando a farlo nella regione del Sahel e del Nord, ma vorremmo avere più possibilità per altri orti.

La rete Slow Food nel Paese conta circa 15000 attivisti ed è diffusa in tutte e 13 le regioni del Paese, gestendo 195 orti agroecologici. Nel 2022 ha avviato la realizzazione di ulteriori 20 orti, il monitoraggio (visita e raccolta informazioni di valutazione d’impatto) di 50 orti complessivi tra nuovi ed esistenti, l’organizzazione di 2 incontri nazionali e di 7 eventi di educazione al gusto e sensibilizzazione.

Le risorse economiche per realizzare tutte queste attività provengono dal sostegno di Condotte, Comunità, amici di Slow Food nel mondo, che non smettono di sperare in un futuro buono, pulito e giusto, ed essere concretamente solidali tra loro. Tre dei 20 nuovi orti pianificati quest’anno – quelli delle scuole di Dialgaye a Koupéla, di Kinnema a Bagaré/Yako e di Dago a Yako -, sono finanziati dalle donazioni dei soci di Slow Food Italia e dedicati alla memoria di Davide Ghirardi (qui i due orti sostenuti in passato). Due orti saranno gemellati con membri di Slow Food Germania. Molti altri invece sono sostenuti grazie ai fondi raccolti con il 5×1000 alla Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus (CF 94105130481). E sono solo alcuni esempi».

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[1] Fonte: Agi.it

[2] Fonte: France24.com

[3] Fonte: Reliefweb.int

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