Oggi George Njoroge Ngumba, presidente del gruppo di giovani “Jedidia” che cura l’orto comunitario di Kanjuiri in Kenya, ci racconta la sua esperienza.
Quando è nato il gruppo Jedidia e perché?
Siamo 15 giovani di età compresa tra i 24 e i 32 anni che vivono nel campo profughi di Kanjuiri. Il campo ospita più di 200 famiglie di sfollati a seguito delle violenze post-elettorali avvenute in Kenya tra il 2007 ed il 2008. Il gruppo Jedidia si è formato nel 2012 ed è nato come piattaforma per l’apprendimento e lo scambio di idee. Ognuno di noi ha sofferto di problemi fisici e psicologici per le violenze in cui siamo stati coinvolti. Fondare un gruppo ci è sembrato il modo migliore per affrontare le nostre esperienze dolorose e allo stesso tempo aiutarci vicendevolmente a trovare soluzioni sostenibili per il futuro.
Dalla vostra nascita quali attività avete realizzato?
La prima iniziativa su cui abbiamo lavorato insieme è stata un piccolo fondo di microcredito a rotazione che ogni membro ha finanziato per 60 scellini kenioti al mese (circa 50 centesimi di euro). Dopo un anno, questa modesta cassa comune ci ha consentito di avviare piccoli progetti per il nostro sostentamento, come l’allevamento di polli.
Abbiamo poi deciso di allevare pecore: questi animali hanno un ruolo molto importante perché contribuiscono a mantenere pulito il terreno brucando le erbacce oltre a fornire concime organico per i piccoli appezzamenti di terra che coltiviamo accanto alle tende dove abitiamo. Abbiamo iniziato acquistandone una ed ora ogni componente del gruppo possiede due capi.
Nel 2014 grazie ai fondi per i giovani stanziati dal governo, abbiamo intrapreso un progetto agricolo piantando patate e ortaggi: purtroppo il raccolto non è stato buono a causa delle scarse precipitazioni.
Qual è il ruolo del vostro orto Slow Food?
Nell’orto comunitario di Kanjuiri impariamo gli uni dagli altri e ci motiviamo a vicenda, perché crediamo che l’unione faccia la forza e che solo uniti si possa fare passi avanti. Quando abbiamo iniziato coltivavamo poche varietà ma, avendo acquisito consapevolezza sull’importanza di preservare la biodiversità locale, abbiamo iniziato ad introdurre prodotti indigeni che fossero in armonia con la natura circostante.
Oggi nell’orto crescono “sukuma wiki” (prodotto anche noto come Chepkilumnda, a bordo dell’Arca del Gusto), cipolle, erba ragno (gynandropsis gynandra), amaranto, patate dolci, maranta, zucche, differenti tipi di fagioli tra cui i fagioli dall’occhio, morella, rosmarino.
L’orto comunitario di Kanjuiri è un esempio di orto avviato in un contesto difficile. Cosa vi ha spinto a crearlo?
Condividere problemi comuni, essendo tutti nella condizione di “Internal Displaced People”, è qualcosa che ci unisce. L’automotivazione è il motore che ci guida, alimentata dalla nostra solidarietà comune.
Un altro elemento di motivazione è stato sicuramente il coinvolgimento nel progetto dei 10.000 orti in Africa. Le conoscenze apprese durante la formazione ci hanno fatto capire quanto possiamo fare per renderci autonomi e assicurarci la sicurezza alimentare, senza necessariamente dipendere dagli aiuti alimentari governativi. Tutti i membri del gruppo coltivano anche piccoli appezzamenti individuali per garantirsi una fonte di cibo sicura, replicando quanto sperimentano nell’orto comunitario.
Quali problemi affrontate avendo scelto di coltivare secondo metodi sostenibili?
Ci confrontiamo con diverse sfide. La principale è rappresentata dalle variazioni nell’andamento delle precipitazioni, anche come conseguenza del cambiamento climatico. Inoltre, sebbene abbiamo appreso metodi naturali per combattere gli agenti infestanti, le malattie delle piante ancora rappresentano un problema.
Quali sono i vostri piani per il futuro e quale messaggio volete dare ai giovani come voi?
Come “Internal Displaced People” il nostro sogno sarebbe di poter acquistare un terreno da dividere equamente dove poter produrre cibo per l’autoconsumo. Abbiamo anche in programma di diversificare la produzione del nostro orto comunitario per renderlo un’aula all’aria aperta dove poter sensibilizzare la comunità locale. Vorremmo rappresentare un modello per altri gruppi di giovani. Il messaggio che vogliamo diffondere è che il diritto al cibo è un diritto di tutti e che il cibo è strettamente connesso con le radici culturali di ogni comunità.
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