Intervista a Gilles Luneau sui fondi Ue all’agricoltura

Gilles Luneau: «esigiamo che siano versati a favore del clima, della biodiversità e della salute».

Gilles Luneau, scrittore, giornalista e regista francese, si occupa da anni di globalizzazione e di questioni agroalimentari, nonché del rapporto uomo-natura e città-campagna; è autore di saggi, inchieste, biografie e documentari per la tv francese e per Arte, il canale franco-tedesco.

Il suo ultimo libro pubblicato in Italia, scritto a quattro mani con José Bové, è L’alimentazione in ostaggio, con la prefazione di Carlo Petrini, in cui ha spiegato il ruolo enorme che l’economia del cibo gioca nella convivenza umana e in cui esorta a combattere con gli strumenti della cittadinanza attiva le derive dell’agrobusiness. In Francia ha pubblicato di recente Steak barbare. Hold-up végan sur l’assiette, un’inchiesta sulla carne artificiale e gli interessi economici che sostengono la propaganda vegana.

Gilles Luneau

Gilles è un amico di vecchia data di Slow Food, ne ha sempre seguito l’attività – in particolare in Francia – con simpatia e disponibilità, partecipando a diversi eventi internazionali. Dalla sua casa in Bretagna, dove sta lavorando alle ultime fasi di un documentario che racconta come i produttori artigianali e i consumatori consapevoli in Francia hanno reagito durante il lockdown e di come hanno organizzato filiere corte di approvvigionamento efficienti, nonostante le difficoltà, ha accettato di darci il suo punto di vista sulle prospettive attuali del sistema agroalimentare, del cambiamento sempre più urgente, degli insegnamenti che dobbiamo trarre dalla pandemia Covid, e che Slow Food vuole promuovere con le Comunità del cambiamento.

Pensi che il sistema agroalimentare globale possa cambiare attraverso la politica, per esempio a livello europeo con la nuova Politica Agricola Comune? Quanto è importante questa leva per indirizzare i modi di produzione verso la reale sostenibilità ambientale?

Sulla Pac siamo in ritardo, perché prima del Covid si è ritenuto opportuno rimandare la votazione che altrimenti avrebbe visto esprimersi su una questione così importante un parlamento in scadenza; poi c’è stata la crisi sanitaria e adesso non si può discutere di agricoltura senza prendere in considerazione il nesso tra le zoonosi e la deforestazione, l’allevamento industriale, il consumo di suolo fertile.

La salute, la biodiversità e il clima sono i tre elementi della crisi e l’unica strada che conosciamo oggi per mitigarla è l’agrobiologia, cioè l’agricoltura biologica in policoltura-allevamento. Perché abbiamo bisogno di siepi, boschetti, fossati, aree da destinare, nell’ambito del greening previsto dalla Pac, alla non coltivazione. Abbiamo bisogno di prati permanenti, di policoltura e di allevamento rispettosi degli animali, delle piante, degli uomini. Abbiamo bisogno di tutto questo. Ma come fare?

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Credits ©MarcoDelComune

In base alla mia esperienza e alle mie inchieste, ci sono tante comunità rurali pronte a impegnarsi su questo fronte, e c’è una tendenza forte di ritorno alla campagna, l’ho potuto constatare anche durante il Covid: molti si sono spostati dalla città alla campagna, per vivere la quarantena più vicino alla natura, e adesso non vogliono tornare indietro, cercano di organizzarsi una vita diversa. Hanno tra i 25 e i 40 anni, sono già attivi nella società e sensibili all’ambiente. Si organizzano, sono comunità. Si sono moltiplicati i tiers-lieux*, spazi fisici nei quali una comunità condivide liberamente risorse, competenze e conoscenze. Ce ne sono decine, in tutti i dipartimenti, frequentati da giovani che vogliono adottare un modello di vita alternativo, per esempio nella produzione di ortaggi. Abbiamo queste comunità e poi abbiamo quello che chiamiamo reti, aperte, connesse con il territorio.

Ecco, come si fa a rendere sempre più coeso il legame tra territorio ed economia locale?

Oggi l’agricoltura in Europa si fa su un territorio, per forza di cose, ma è pensata per andare altrove, all’estero o nella città vicina, non per nutrire il territorio stesso. Il pensiero tecnologico verticale implica imprese che raccolgono produzione per distribuirla in grandi quantità altrove. Ri-territorializzare vuol dire molto concretamente che il plus valore di tutta la filiera va al territorio e non più nei consigli di amministrazione di grandi imprese. Possiamo oggi dare un quadro legislativo a tutto questo, con gli incentivi agli investimenti alle imprese della crisi Covid: si deve orientare questo denaro, porre condizioni rispetto al clima, alla biodiversità e all’economia circolare.

donna con peperoncini
Credits ©MarcoDelComune

Siamo in un momento in cui le comunità possono entrare nel dibattito politico, perché hanno le soluzioni, sono anni che dimostrano che si può fare, che si può vivere di agricoltura sostenibile con prezzi al consumo accettabili. Non si potrà rispondere alla sfida delle zoonosi, del clima e della biodiversità lasciando che gli altri (l’agricoltura industriale, la grande distribuzione) continuino a inquinare il pianeta.

Sarebbe l’obiettivo della Farm to Fork…

Ma la F2F è vaga, elenca una serie di buone intenzioni e non entra nel dettaglio perché non vuole fare arrabbiare nessuno. La riforestazione, il sequestro del carbonio e la digitalizzazione sono i tre assi su cui si può verificare una deriva tecnologica, e dobbiamo fare molta attenzione affinché le risorse europee non siano deviate su questo. Se vogliamo sequestrare il carbonio, c’è una risposta semplice: i prati permanenti, la policoltura-allevamento. L’agroforesteria è un’altra risposta eccellente, soprattutto per quanto riguarda la fertilità del suolo. Il biologico va bene anch’esso ma non basta se è solo impegno a non mettere fertilizzanti e pesticidi di sintesi; l’approccio dell’agroecologia concilia il quadro ecologico con le esigenze dell’agricoltura.

E comunque, lo ripeto: la soluzione per la CO2 è la policoltura-allevamento. Il prato stabile è fondamentale, perché permette di metterci sopra degli erbivori, ovviamente con un rapporto animale-superficie equilibrato: l’erba cresce, assorbe carbonio, poi viene mangiata, cresce di nuovo, è un ciclo permanente. Il prato è circondato da siepi e boschetti che favoriscono la biodiversità e aiutano l’equilibrio idrogeologico.

Veniamo poi alla digitalizzazione: sopprime l’occupazione e ingrandisce le aziende agricole, si presenta come un progresso il fatto di mettere la dose giusta di veleno nel posto giusto. Non è questo che ci interessa! Quanto alla riforestazione, ovvero la possibilità per chi inquina di compensare le proprie emissioni piantando alberi, permette alle aziende di ri-contabilizzare le loro emissioni e dà loro un alibi per continuare a inquinare.

Insomma, nella strategia F2F non c’è nulla su questo, per contro si parla della condizionalità degli aiuti. Ebbene, esigiamo che siano tutti versati per interventi in favore del clima, della biodiversità e della salute! Bisogna condizionare gli aiuti al rispetto dell’ecologia e dell’occupazione, perché finora il sistema ha premiato le grandi aziende che percepiscono somme enormi senza nessun obbligo, nemmeno di produzione! Dunque, coerenza politica rispetto alle enunciazioni di principio: cessare gli aiuti disaccoppiati, se c’è una misura di capitale importanza che dobbiamo reclamare, è questa.

L’Europa ha sempre dato aiuti condizionati; ebbene, se vogliamo aiutare il clima, allora mettiamo come condizione le rotazioni delle colture con leguminose, il re-impianto di siepi per fissare l’acqua, insomma tutto il programma che l’agronomia sostenibile ha chiarissimo. Poi, si deve fissare per gli aiuti un limite massimo (è scandaloso che ci sia gente che prende 1 milione di euro) e una soglia minima per le piccole fattorie; e si deve sostenere l’occupazione, premiando le aziende in base ai lavoratori assunti: le grandi fattorie industriali hanno come obiettivo di eliminare il personale, invece favorendo l’occupazione rurale si crea un ripopolamento del tessuto sociale.

Sono proposte di buon senso che possono essere fatte proprie da tutte le comunità, sulle quali si può attivare una mobilizzazione. Insomma, se continuiamo come se niente fosse, andranno sprecati 9 miliardi: dopo quello che abbiamo vissuto con il Covid, si deve cambiare!

produttrice legumi
Credits ©StefanoSanson

Possiamo sperare che il cambiamento sia già in atto, che venga dal basso?

In Francia la filiera corta ha tenuto. Ho fatto un’inchiesta per France 3 in Nouvelle Aquitaine, la più grande regione agricola di Francia, con una enorme diversità di produzione. Sono andato a vedere cosa stava succedendo: più o meno ovunque, il cibo non è mancato, in città come in campagna, nessuno ha cambiato abitudini alimentari, anzi piuttosto si è mangiato e cucinato un po’ di più. Ci sono state tensioni all’inizio sulla farina e le uova, perché la gente comprava troppo per paura di star senza… e poi subito le persone si sono organizzate, per strade, per quartieri, telefonandosi, scambiando messaggi e cercando il contadino che potesse fare delle consegne; c’era gente che raccoglieva i legumi, altri il pesce e in effetti c’erano dei posti dove c’è stata anche una battaglia politica per cui i sindaci hanno imposto che si riaprissero i mercati.

Quello che ha avuto un grande impatto negativo è stata la chiusura dei ristoranti e delle mense, queste ultime in Francia devono essere prevalentemente locali e bio, quindi molti produttori hanno perso il loro canale di vendita. Ma nel complesso, le cose sono andate bene. Dove funzionavano gruppi d’acquisto per 60 pacchi, durante la quarantena ne facevano 400/600… la filiera corta è andata rafforzandosi. Per questo dico che oggi abbiamo l’opportunità politica di chiedere che questo continui e che sia sostenuto.

C’è una cosa che ho scritto su «Le Monde», che dico per la Francia ma vale per l’Europa: bisogna smettere di avere un Ministero dell’Agricoltura a sé stante, ci vuole un Ministero dell’Ecologia all’interno del quale rientri il Ministero dell’Agricoltura… perché oggi quando il Ministero dell’Agricoltura, che è condizionato dalle lobby agroindustriali, dice no a un provvedimento che invece vede il Ministero dell’Ecologia a favore, prevale il primo. Invece deve avvenire il contrario. E poi, le comunità devono diventare luoghi di democrazia, di governance alimentare e del territorio. Le Camere d’Agricoltura vanno trasformate in parlamenti dell’alimentazione, della natura e dell’agricoltura, dove si discuta degli usi agricoli, dove siano rappresentate tutte le istanze e gli interessi legati alla natura, compresi quelli dei raccoglitori di funghi, dei cacciatori, dei cicloturisti…

coppia
Credits ©MarcoDelComune

Insomma, un’agricoltura che diventa esercizio di democrazia?

L’agricoltura ha creato la nostra civiltà, ci ha reso sedentari, coesi, ha creato le strutture sociali. È normale che si pensi all’agricoltura come rifondatrice della democrazia. Abbiamo un’opportunità: la classe politica oggi è disorientata, tra la crescita dell’estrema destra e il non essere all’altezza delle aspettative da parte dell’Europa. Possiamo interpellare i politici a partire da quello che facciamo, da quello che abbiamo costruito, dir loro che abbiamo la soluzione.

*Tiers-lieu è un termine tradotto da The Third Place che si riferisce agli ambienti sociali che vengono dopo la casa e il lavoro. Si tratta di una tesi sviluppata da Ray Oldenburg, professore emerito di Sociologia urbana presso l’Università di Pensacola in Florida, nel suo libro pubblicato nel 1989: “The Great Good Place”.

 

P. Nano – p.nano@slowfood.it

 

 

Ci sono due modi per sostenere le Comunità del cambiamento:

  • per i cittadini: donazione del 5xmille alla Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus (CF 94105130481)
  • adesione al fondo per le Comunità del cambiamento:
    • per le aziende (e.margiaria@slowfood.it)
    • per le istituzioni e fondazioni (r.burdese@slowfood.it)

 

 

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