Giornata Internazionale della biodiversità: i cibi in pericolo

Nel 1840, durante la grande carestia irlandese (nota anche come carestia delle patate), la peronospera, malattia delle patate, distrusse la dieta di base di un terzo della popolazione, causando la morte di circa un milione di persone.

Oltre un secolo dopo, nel 1970, la ruggine delle foglie di mais colpì il Sud degli Stati Uniti distruggendo il 25% delle coltivazioni di mais. A partire dal 2006-2007, gli allevamenti cinesi furono colpiti da un virus della sindrome respiratoria e riproduttiva del suino e circa 45 milioni di maiali morirono o furono abbattuti. E, ancora, lo scorso anno l’epidemia di ruggine del grano nel sud d’Italia è stata la più grave e vasta che si ricordi in Europa negli ultimi 50 anni. Più recentemente, appena la scorsa settimana, è arrivata la notizia che la ruggine del caffè – un fungo che ha paralizzato le economie dei paesi produttori di caffè generando lo stato di emergenza in Costa Rica, Guatemala e Honduras – è riemersa in una varietà di caffè che, dopo l’epidemia del 2012, era stata piantata in Honduras per la sua elevata resistenza agli agenti patogeni.

In agricoltura, la dipendenza da un numero limitato di varietà o di specie aumenta la vulnerabilità, eppure secondo i dati dalla Fao, i tre quarti del cibo mondiale derivano da sole 12 varietà vegetali e da 5 specie animali. Questa riduzione della biodiversità agroalimentare è legata ad aspetti diversi della produzione di cibo: dalla riduzione dell’effetto benefico dei microbi all’interno del suolo alla crisi degli insetti impollinatori, passando per il predominio degli ibridi, che escludono dai campi e dal mercato le varietà locali.

A livello mondiale, coltiviamo meno dell’1% delle 30.000 varietà vegetali edibili. Più della metà delle calorie che assumiamo dai vegetali deriva da grano, mais e riso, mentre il 90% delle calorie animali arriva da meno della metà dei volatili e dei mammiferi che l’uomo ha addomesticato per il consumo.

Questo impoverimento è evidente in modo particolare nei campi coltivati a monocoltura (di grano, riso, mais, soia e olio di palma), ovvero quelle produzioni per le quali gli scienziati (dopo aver studiato per 50 anni i dati relativi alle abitudini alimentari della maggior parte della popolazione) hanno coniato il nome di dieta standard mondiale. Tutto ciò è evidente anche sugli scaffali dei negozi e dei supermercati. Nelle corsie possiamo trovare frutta o verdure esotica, ma la dieta di base è sempre più uniforme, e fa parte della tendenza generale verso la standardizzazione. Ad esempio, il 90% delle vacche che producono il nostro latte, formaggio, gelato e yogurt appartiene esclusivamente a un’unica razza, la Frisona, che garantisce una resa di latte altissima. Ciò che apparentemente sembra diversità, in realtà è solo una differenza legata dovuta al gusto.

Tutto ciò, in larga misura, è l’effetto di un sistema agricolo industrializzato che privilegia la quantità e le alte rese. Questo sistema ha contribuito ad alleviare la fame di certe aree del mondo; tuttavia, piantagioni monovarietali e allevamenti uniformi hanno ridotto la capacità delle piante, degli animali e di altri organismi di rispondere ai cambiamenti ambientali (un parassita o una malattia possono distruggere tutto, scenario che è ulteriormente esasperato dal cambiamento climatico). E, come la storia ha già dimostrato più volte, questo modello non garantisce la sicurezza alimentare.

Sebbene secondo le lobby del settore agroalimentare e i loro sostenitori il modello industrializzato – che punta a grandi quantità di cibo a basso costo – sia il solo capace di sfamare una popolazione in costante crescita, la realtà è più sfumata.

In tutto il mondo, produciamo più calorie di quelle sufficienti ad alimentare la popolazione attuale del pianeta, così come i 9,6 miliardi previsti entro il 2050.

La fame non è legata solo alla produzione, ma è soprattutto un problema di distribuzione e di accesso al cibo. Per questo – paradossalmente – gli agricoltori, i lavoratori migranti e gli addetti alla ristorazione sono tra le categorie più fragili al mondo.

Contro l’insicurezza alimentare non serve semplicemente coltivare e produrre sempre più cibo, ma occorre creare maggiore diversità e resilienza in ciò che coltiviamo.

E ciò significa andare oltre una dieta standard, fondata su prodotti alimentari coltivati per le loro alte rese e per la loro capacità di adattamento ambientale (come, ad esempio, la tolleranza alla siccità o la resistenza ai parassiti).

Un’analisi realizzata dal Centro Internazionale per la Ricerca Forestale (CIFOR) sulla dieta di più di 93.000 bambini provenienti da 21 paesi africani dimostra che le diete dei giovani che vivono in aree caratterizzate da un’elevata copertura arborea e con una maggiore biodiversità sono più nutrienti, anche quando i redditi familiari sono bassi.

In questa Giornata Internazionale della Biodiversità, abbiamo l’opportunità di celebrare non solo ciò che abbiamo, ma ciò che siamo. Il cibo, infatti, è storia, memoria e identità. La sua diversità, a tutti i livelli, aumenta la nostra capacità di rispondere alle sfide.

Siamo interdipendenti e, per nutrirci, abbiamo bisogno l’uno dell’altro.

Simran Sethi

Simran Sethi è autrice di Bread, Wine, Chocolate: The Slow Loss of Foods We Love (Slow Food Editore, 2017), libro che racconta la perdita di biodiversità agricola attraverso le filiere del pane, del vino, del caffè, del cioccolato e della birra. Simran è membro dell’Institute for Food and Development Policy e l’autrice del podcast sul cioccolato, The Slow Melt. Sarà presente a Slow Food Denver, Stati Uniti, luglio.

Bread, Wine, Chocolate: The Slow Loss of Foods We Love è disponibile anche online!

 

 

 

 

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