Ciao Domenico!

Negli scorsi giorni ci è arrivata notizia della scomparsa di Domenico Salini, produttore di mariola, Presidio Slow Food. Lo ricordano gli amici di Slow Food Emilia Romagna

 

L’amore per la montagna non bastava. Una tradizione vecchia di 170 anni non era sufficiente. Per far rinascere un salume ormai dimenticato come la mariola c’è voluta tutta la caparbietà e la lungimiranza di norcino nato a mille metri di altitudine, in un luogo raggiungibile dopo sette chilometri di erta fatta di cento curve, caprioli a farti da spettatore e l’auto sempre in seconda. Il vento no. Quello arriva diretto, accarezzando i monti e portando l’aria del mare della Liguria. Domenico Salini la respirava da quando era nato, il 16 dicembre 1950. E sapeva bene quanto potesse dare un sapore unico a questo salame unico e antico, presente nei dizionari piacentini dei primi Ottocento.

Dobbiamo metterci a rifare la mariola”, disse circa 18 anni fa. Ma non era chiaro né in famiglia né fuori a cosa avrebbe portato la sua quasi “pazza” proposta. Già i fratelli Salini di Groppallo lavoravano “duro” al freddo in un laboratorio in montagna con le mani rosse e bagnate di carne per interi pomeriggi e la mariola non è certo un salume che ti può garantire un valore commerciale. Tant’è che quando Domenico parlò della mariola quasi nessun salumificio la realizzava più e i Salini ne insaccavano qualcuna per gioco e per tradizione famigliare. “La mariola costa e non rende – si mormorava – perché “ruba” tutte le carni nobili del maiale e deve stare in cantina sei mesi, se va male è un vero spreco”. Molto più “convenienti” quei salamini piccini che in due mesi son pronti, li vendi e porti a casa i soldi della materia prima senza rischiare che si buchino e si rovinino.

Ma in questo suo progetto Domenico, caparbio, determinato e in fondo un po’ sognatore, si ritrovò a fianco una giovane associazione che aveva come missione salvare prodotti e produttori che seguivano la filosofia del “buono pulito e giusto”: Slow Food.

Valentino Ramelli, Luisella Verderi (poi diventata fiduciaria di Piacenza) e Domenico Salini, un vero clan di instancabili chiacchieroni, iniziarono così il loro viaggio nella storia della norcineria piacentina, scoprendo (o meglio, avendo la conferma) di quanto fosse ricca di tradizione e valori, non solo alimentari. Molto più di tante altre, anche maggiormente celebrate.

Così, incuranti della iniziale diffidenza generale, cominciarono a studiare, documentarsi, sperimentare. Si facevano forza a vicenda, con il pensiero fisso di riscoprire e far riscoprire la mariola. Uno sforzo premiato a inizio del Duemila, quando, con l’aiuto di Piero Sardo, la mariola di Groppallo divenne Presidio Slow Food.

Una conquista per tutto il movimento Slow Food di Piacenza, che proprio da lì iniziò una stagione di crescita che ancora persiste e resiste. E una vittoria di Domenico e di tutta la famiglia Salini, che ha reso la mariola il prodotto di punta del salumificio di Groppallo. Simbolo di una tradizione autentica, di coraggio imprenditoriale, di capacità di vendita, ma anche di un insegnamento che “Memi”, mio padre, ha lasciato in ogni progetto che ha portato avanti nella sua vita: fai le cose fino in fondo, credici, non montarti la testa, ma non spostarti di un millimetro, mettici costanza, pazienza e stravolgi le tue aspettative e le tue regole. Alla fine la vita ti regalerà di più di quello che avevi immaginato.

Ricordo quando da Groppallo mi fece partire all’improvviso per una riunione di Slow Food a Castrocaro (255 chilometri teorici, sbagliammo pure strada, ma lui si fidava del navigatore che ci fece percorrere una serie di crinali infiniti e il viaggio diventò di 400). Se arrivava l’invito a un qualsiasi evento dell’associazione, scattava e guidava con quello sguardo onorato di potervi partecipare. E’ con questo spirito che i Salini (anche Vittorio e Renzo e poi i giovani Mauro e Guido) portano già dal 2002 i loro salumi al Salone del Gusto di Torino, un investimento consistente per un’azienda di montagna, composta allora da tre persone. Domenico, irriducibile montanaro, era fiero di far parte di quel mondo che avviava una storica riflessione sul cibo e sulla sua produzione. Voleva conoscere, amava ascoltare e anche parlare della sua azienda, della sua storia, dell’Appennino. Si emozionava, anche se provava a celarlo dietro i baffi e gli occhiali. E viveva sentendo il valore di quello che stava facendo, un’intensità che non poteva nascondere a chi lo conosceva bene.

E a conoscerlo bene erano davvero in tanti. Gli amici, i clienti, i fornitori, i colleghi, coloro che si “arrampicavano” al ristorante e che lo ascoltavano spiegare i salumi, il lavoro suo e dei suoi inseparabili fratelli, la provenienza delle carni, scelte direttamente da lui negli allevamenti della zona. Ci teneva che venisse mostrato al cliente il pezzo crudo di carne prima di cuocerlo, per mostrarne poi la resa.

Non era mai stanco di parlare con le persone. Costruiva legami. Nei giorni dopo la sua scomparsa (lo scorso 24 novembre, a soli 67 anni) sono state davvero tante le persone che sono venute a raccontarci le relazioni, i legami, le “reti” che aveva costruito. Ognuno con almeno un aneddoto che confermasse quanto fosse umile, ma orgoglioso di quello che aveva costruito.

Elena Salini

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