La maschèrpa si produce in alpeggio nella seconda metà della stagione estiva, quando il latte è naturalmente più grasso e le temperature ambientali diventano più miti, utilizzando il siero del latte che rimane nella caldaia dopo la lavorazione del formaggio.
Ha forma tronco-conica oppure cilindrica, con facce piane di diametro medio di 23- 30 cm, alte 40-60 cm, del peso di circa 4 kg. Priva di crosta, ha una struttura tenera che passa dall’essere fondente nelle prime fasi di maturazione fino a friabile nelle forme stagionate. Da fresca, la pasta è di colore bianco o avorio. Ha un sapore delicato, dolce, dall’odore tipico di latte cotto e leggero sentore vegetale. Con la stagionatura si ritira, perdendo la metà del peso e aumentando di consistenza. L’aroma e l’odore sono forti ed intensi. All’interno è di colore tendente al grigio e dopo qualche settimana di lavorazione “fiorisce”, ricoprendosi di una muffa color marroncino che viene periodicamente pulita in occasione della girata delle forme.
Il termine maschèrpa pare sia di origine longobarda e indicherebbe un formaggio fresco e bianco, ma nella tradizione locale questo termine è sempre stato utilizzato per indicare la ricotta.
Un elemento distintivo che la differenzia però dalle comuni ricotte è l’aggiunta di un 10% di latte di capra, solitamente di razza orobica.
È un prodotto legato in particolare alle Alpi Orobie dove, soprattutto nelle valli del Bitto, in Val Gerola e nel versante bergamasco del passo S. Marco in alta Val Brembana, si conserva una grande tradizione casearia grazie ai produttori riuniti nel Presidio Slow Food dello Storico Ribelle.
In questa area il clima, l’altitudine, l’esposizione, i venti generano un microclima del tutto peculiare che, insieme alle caratteristiche del terreno e della biodiversità vegetale, favorisce lo sviluppo di essenze foraggiere varie e di qualità superiore.
La tecnica di produzione prevede di riscaldare il siero (lazzelùn, serùn) fino a 60°-65°C. Si aggiunge a questo punto il latte di capra, intero e appena munto, riscaldando poi nuovamente fino a 85°90°C. È questa la fase più delicata. Occorre infatti una particolare sensibilità nel riconoscere il momento e la temperatura perfetti per aggiungere la soluzione acidificante e ottenere il giusto coagulo, che fa la differenza tra la maschèrpa e una ricotta comune.
In passato, quando non si aveva a disposizione il termometro, si utilizzava un metodo empirico: il casaro picchiava il fondo della caldaia con un bastone e dal suono prodotto capiva se era o no il momento di agire.
La temperatura di aggiunta della soluzione acidificante è un elemento critico della lavorazione: se è troppo bassa la consistenza dei fiocchi è ridotta e la resa scarsa, se è troppo alta la maschèrpa assume un gusto di cotto. L’aggiunta della soluzione acida deve essere effettuata con gesto rapido e deciso: solo così si ha la perfetta risalita dei fiocchi di ricotta che si accumulano in superficie formando uno strato biancastro compatto.
Come soluzione acida in passato si utilizzava l’agra, ovvero il siero magro ricavato dalla scòcia (il residuo della lavorazione della maschèrpa) che doveva risultare limpida e dal colore verde chiaro. Era conservata in botticelle di larice e periodicamente rinnovata, un po’ come si procede con la ‘madre dell’aceto’.
L’acidificazione era favorita dall’aggiunta di allume di rocca, radice di genziana, ginepro, prugne secche, frutta acerba, aceto, foglie di acetosa e richiedeva diversi giorni durante i quali il liquido, contenuto in una tinozza di legno, era tenuto al sole.
La scòcia si utilizza anche per lavare gli strumenti utilizzati e il rimanente si somministra ai vitelli o ai maiali.
I fiocchi di maschèrpa, raccolti con la tradizionale schiumarola di rame (càspsula), si depositano in contenitori di legno forati (garocc’), alti 40-60 cm e del diametro di 25-30 cm. collocati su un piano in legno inclinato detto spresùn. Qui avviene lo spurgo, che dura mezza giornata (in alcuni casi 24 ore), dopo di che la maschèrpa è pronta per il consumo freschissimo.
Il prodotto che si vuole destinare alla salatura viene fatto invece scolare per 3-4 giorni. La salatura a secco si pratica su entrambe le facce e, dopo alcuni giorni, raggiunta una minima consistenza, si estrae dal contenitore. Le forme si pongono quindi su appositi scaffali, le scalere, nel locale di maturazione: la maschèrpera, situata al piano superiore delle casere d’alpe.
Dopo un periodo di riposo potranno essere consumate relativamente fresche (entro 2-3 giorni) oppure, in casi di eccezionale qualità, dopo attenta selezione da parte del casaro, potranno riposare ancora per periodi di stagionatura più prolungati, fino ad un anno.
Le maschèrpere oggi sono rare. Pochi alpeggi oggi ne possiedono ancora, si trovano solo negli alpeggi più alti, oltre 2000-2100 metri.
Il locale deve avere un’areazione ottimale, per non asciugare troppo la maschèrpa o formare troppo rapidamente le muffe, evitando così che siano intaccate dalle mosche, con il rischio di perdere il prodotto. Le forme devono essere disposte su scalere di legno nei punti meno umidi del locale. Per queste ragioni la conservazione della maschèrpa è complessa e non tutte le forme possono essere destinate alla maturazione.
La forma fresca prodotta in alpeggio, avendo un gusto più delicato, è ottima abbinata a piatti freschi. Dopo alcuni mesi di maturazione può essere utilizzata da grattugia.
Nella cucina locale, viene scagliata o grattugiata su pizzoccheri, tagliatelle e verdure, molte delle quali reperibili solo in alcuni periodi dell’anno, come lo spinacio selvatico (in dialetto paruch).
Esiste anche una versione elvetica: la mascarpa in bogia, dove per bogia si intende il contenitore di legno. Non a caso in dialetto valtellinese si usa anche chiamarla mascarpa.
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