La Faldacchea di Turi, è un dolce tradizionale di origine conventuale di Turi, a base di pasta di mandorle ricoperta da una glassa di zucchero (la cosiddetta gileppe). Come finissimo decoro, sempre con la stessa copertura, ma colorata, si ricamano dei disegni (scherzetti) sulla superficie liscia e bianca della glassatura.
Nel 1623 in questo paese venne fondato un monastero di clausura di clarisse di Santa Chiara . Nella prima metà del ‘700 con il suo piccolo chiostro, e l’annessa chiesa di Santa Chiara, al catasto onciario del Comune di Turi risultava l’ente più ricco del paese. Il monastero vantava una proprietà di circa mille ettari di terreno, coltivati con mandorleti, vigneti, uliveti, orti e seminativi.
Le monache si assicuravano l’autonomia necessaria per la gestione di tutte le attività che ruotavano intorno al convento. In particolare, le monache erano dedite all’arte della cucina e della pasticceria.
Il monastero, era provvisto di una grande cucina composta da due focolari, ed un locale attiguo adibito a “panetteria” provvisto di un forno a legna ed una cantina interrata. La cucina e la panetteria si affacciavano su una strada, oggi scomparsa, denominata strada “forno delle monache”. In seguito all’Unità d’Italia il convento fu soppresso e incamerato dallo Stato Italiano.
Le ricette dei pasticcini prodotte dalle monache nei secoli furono però trasmesse all’esterno poiché alcune donne del paese nel XIX secolo lo frequentavano per assistere alcune monache. Una di queste fu Antonia Martinelli, soprannominata dai concittadini “la monacacella”, per la sua corporatura esile e per la frequentazione con le monache clarisse di Turi. Da un documento “inedito”, scoperto e consultato recentemente presso l’archivio Diocesano di Conversano, è emerso che nel 1887 una giovane Anna Antonia Martinelli, venne autorizzata dalle autorità ecclesiastiche a entrare nella clausura di Turi, per assistere due monache claustrate entrambe inferme e allettate. Per circa un decennio, Anna Antonia Martinelli giornalmente frequentò il monastero, e apprese le ricette custodite dalle monache claustrate.
Grazie alla giovane Martinelli la ricetta della faldacchea oltrepassò le mura del convento e pian piano si diffuse tra le donne del paese. Nel 1891 Antonia Martinelli si sposò, e nella propria abitazione, allestì un piccolo laboratorio dove preparare dolci di mandorla. In particolare il dolce della faldacchea, un dolce nuziale, che veniva donato a parenti e amici all’insegna del buon augurio e del ringraziamento.
In breve tempo questo laboratorio casalingo divenne una sorta di fucina per formare giovani ragazze che ambivano ad apprendere l’arte dolciaria. Tra le numerose pasticcere formate dalla Martinelli, si segnala Ninetta Dragone, che fu determinante nell’evoluzione della ricetta della faldacchea di Turi. Infatti verso la fine degli anni ’30, Ninetta Dragone apportò una variante alla antica ricetta, incorporando nel dolce una amarena ed un pezzettino di pandispagna bagnato con il liquore di alchermes. Questa peculiarità, con il tempo, è diventata una delle caratteristiche del dolce. Inoltre fu la stessa Dragone a coniare la parola “scherzetto”, termine utilizzato ancora oggi per indicare la decorazione che arricchisce e rende inconfondibile la Faldacchea di Turi.
La ricetta originale è stata trascritta da un sacerdote di Turi, don Vito Ingellis, e prevede di sbucciare e macinare un chilogrammo di mandorle fino ad ottenere una farina. Nel frattempo mettere sul fuoco una pentola con 950 grammi di zucchero con un po’ d’acqua. Si rimesta fino a portare a bollore. Si spegne il fuoco quando prendendo un po’ di composto fra le dita si forma un filo che, a circa 5 centimetri di lunghezza, si spezza. Si aggiungono a questo punto 14 tuorli sbattuti e si mescola energicamente. Fare nuovamente bollire, sempre girando. Si aggiungono quindi la farina di mandorle, 25 grammi di cannella e la scorza grattugiata di due limoni. Dopo circa 10 minuti passati a mescolare e, quando il composto si stacca dal fondo della pentola, si versa il tutto in un piatto a raffreddare. Si taglia quindi a pezzetti di grandezza a piacere e li si schiaccia un po’. All’interno si pone un poco di marmellata. La ricetta della Dragone invece incorpora un’amarena e pezzetto di pan di spagna imbevuto di alchermes. Si chiudono i dolcetti per bene dando una forma rettangolare. A questo punto si versa in una pentola un poco d’acqua e un altro chilo e 100 grammi circa di zucchero e si mescola. Quando arriva a filare si toglie dal fuoco e si sbatte fino a formare una massa bianca. Con un poco di acqua si fa sciogliere nuovamente sul fuoco la massa, facendola tornare un poco più liquida, per poter inzuppare cioè “ingiulebbare” i dolcetti. I dolci devono essere quindi posti su una graticola a scolare. Sopra ai dolcetti si disegnano dei motivi (gli scherzetti) con un filo di zucchero colorato.
Il termine “faldacchea” richiama quello di “faldaccheria” di origine spagnola, e in uso nel dialetto napoletano. Nel ‘600, al tempo in cui il Regno di Napoli era governato dagli Spagnoli, la “faldicchera” era un piccolo dolce fatto di uova e zucchero, già diffuso nei conventi. Questo dolce fu poi “reinventato” a Lecce, con questo nome si definiva il ripieno, insieme a marmellata e canditi, della pancia dei dolci pasquali a forma di pesce e agnello.
In Puglia lo preparavano, dicono gli storici, le monache di Grottaglie, le Clarisse di Turi e le Benedettine di Lecce. Ma se ne contendevano il primato le Teresiane di Bari e le Benedettine di Lecce. Secondo alcuni la faldacchiera leccese risalirebbe all’anno 1680, come una presunta invenzione di Anna Fumarola che da quell’anno al 1700 fu badessa del monastero benedettino di San Giovanni Evangelista di Lecce.
Per il suo aspetto così sontuoso la faldacchiera era considerato il dolce dei signori, uno dei dolci diplomatici che nei conventi le suore preparavano per farne dono, in occasione delle feste di Natale e Pasqua, al vescovo e ai prelati.
Oggi si propone con alcune varianti: il ripieno prevede a volte anche pan di spagna inzuppato e amarene, oppure i dolcetti sono ricoperti con cioccolato bianco. Ancora oggi spesso viene regalata come bomboniera ai matrimoni.
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