Per giudicare la qualità di un prodotto non bastano analisi chimiche o fisiche, ma non è sufficiente neppure la degustazione.
Bisogna conoscere l’origine (in che territorio è nato: in alta montagna o in pianura? In una zona urbanizzata o isolata? In un clima umido o arido? In un’area ben definita o molto ampia?), confrontarsi con la comunità (è conosciuto da tutti o da pochissimi? È considerato un prodotto di pregio, destinato a feste e cerimonie, oppure è un prodotto povero?), conoscere la tecnica di trasformazione (è un formaggio a latte crudo o pastorizzato? È a pasta cotta, filata, cruda? È fresco o stagionato? E così via), i metodi di conservazione (si affumica, si avvolge nella paglia…). Poi, naturalmente, si assaggia e si cerca di valutare gli aspetti organolettici. Un prodotto è interessante se è complesso, cioè se cambia nel corso della degustazione, offrendo sensazioni che si evolvono e durano a lungo. Un prodotto banale offre sensazioni brevi e termina, al naso e in bocca, allo stesso modo in cui nasce, con le stesse caratteristiche. Durante la degustazione si possono individuare eventuali difetti (note di rancido, acidità eccessiva…), identificare le principali caratteristiche organolettiche (profumo, sapore, consistenza), capire se se c’è equilibrio, armonia tra le varie componenti, gustative e aromatiche; se il prodotto esprime bene il territorio e la tipologia (a volte un elemento apparentemente difettoso è invece tipico di quell’area a di quella tipologia: il gusto amaro, ad esempio, è sempre un difetto nei formaggi di capra, ma è una caratteristica tipica di alcuni formaggi di vacca di alpeggio).
In sintesi, nell’accezione Slow Food la qualità di un prodotto alimentare è una narrazione.